Scuotiti di dosso il passato e prendilo tra le mani!

Queste parole cariche di azione e coraggio non sono mie. Queste parole le traggo direttamente da Walter Benjamin, filosofo al quale ci si rivolge di solito quando non si ha chiaro l’aspetto culturale di una città.

In sostanza, lui dice che la storia della cultura rappresenta solo in apparenza un progresso della comprensione. Nel senso che il solo approccio storico, non ci verrà in soccorso.  Naturalmente, il peso dei tesori ammucchiati sulle spalle dell’umanità è importante, ma non deve diventare imponente.

Considerato poi che l’altra sfida è costituita dal fatto che aumenta! La storicizzazione insomma, non le dà la forza di scuotersi di dosso tutti questi tesori e di tenerli così tra le mani in modo da poterli gestire.

L’idea di lavorare con la storia invece, (dal punto di vista di musei, enti, fondazioni e biblioteche in riapertura) deve voler dire scongiurare di rimettere i documenti storici dietro una teca di vetro come se tutto fosse risolto. La premessa principale è che il passato non è affatto chiuso. Anche quello recentissimo.

Accorgersi che “i tesori accumulati sulle spalle dell’umanità”, (dunque ogni tipo di documento culturale), sono un peso che l’umanità deve sopportare se continuiamo a intendere i documenti storici solo come pesanti “monumenti”.

La via di fuga che Benjamin propone è di scrollarseli di dosso e di prenderli tra le mani. C’è insomma un’immagine molto chiara e potente in questa frase che è di grande aiuto per comprendere quale direzione assegnare alla cultura.

Il concetto di Benjamin di un passato redento è stato più volte interpretato come il recupero di eredità o tradizioni alternative e dimenticate da inserire nella storia. Ciò significa cercare di restituire un passato dimenticato, presente solo all’interno della ricerca dello storico di cui noi (pubblico medio) possiamo essere all’oscuro.

Infatti, continua Benjamin: “riguardo a cosa si può salvare qualcosa del passato? Non tanto rispetto al discredito o al disprezzo in cui è tenuto, quanto soprattutto rispetto a un certo modo della sua tradizione. Insomma, il modo in cui è considerato un “eredità” è più grave della sua eventuale scomparsa.

La proposta di Benjamin è molto radicale. Ed è ancora valida laddove ci chiede di evitare di reinserire un passato più o meno dimenticato all’interno di una storia già scritta, al solo scopo di completarla, ma soprattutto di cercare di mettere in discussione i metodi storiografici che hanno creato la storia che conosciamo.

Il passato cioè non è da recuperare dal suo abbandono o discredito, ma da una certa forma di tradizione, trasmissione e scrittura. Questa operazione equivale a reinventare la tradizione e, insieme ad essa, a creare altri modi di scrivere la storia. Il passato non è un’eredità da mettere dietro una teca, protetta dallo scorrere del tempo, ma un materiale ad esso sottratto di cui bisognerebbe appropriarsi.

È questo ciò che capisco dell’espressione “scrollarsi di dosso la storia della cultura”. La seconda parte, “prenderla in mano”, la intendo come guardare alla storia ricevuta alla luce del tempo presente: cioè scoprirne le potenzialità nascoste, attualizzarlo come un passato che può ancora parlare, come un linguaggio vivente che non ha ancora detto tutto quello che aveva da dire.

Si tratta di comprendere il passato non come qualcosa di chiuso e quindi prescrittivo, ma come qualcosa che aiuta a comprendere il presente e a proiettare futuri possibili.

Ancora una volta riscattare un passato non significa ripristinarlo nella sua dignità da tramandare alle generazioni future. Soprattutto perché a quei concetti di autenticità e dignità si associa un’idea di verità unica e immutabile: quella che deve essere custodita, protetta, preservata e trasmessa.

L’idea di fedeltà alla storia invece non significa riconoscere una verità concreta, ma cercare di mantenere un’apertura nei suoi confronti, che di fatto significa una critica costante al passato e al modo in cui è stata trasmesso a noi. La verità non è qualcosa a cui essere fedeli, ma un’apertura storico-temporale, una memoria aperta allo sviluppo e al cambiamento storico.

L’opera storica rilevante quindi non è conservare un patrimonio inteso come canone, ma come materiale col quale esprimere il presente. Un linguaggio che può ancora parlare. Una cultura viva di cui ci serviamo per relazionarsi criticamente con il presente.

Incarnare questo modo di fare critica e di essere fruitori di cultura significa pensare oggi a come sovvertire la propria vita tentando di combattere contro un senso fin troppo generalizzato di impotenza.

Abbiamo bisogno di trovare parole che ci coinvolgano, che quando entrano in contatto con il nostro corpo facciano sì che il mondo non sia più lo stesso. Sentirsi influenzati sia dal silenzio che da quelle parole che cerchiamo insieme e che a volte riusciamo a trovare.

Quelle di Benjamin mi dicono infine che non è il caso di continuare a produrre idee o conoscenze da consumare individualmente, ma piuttosto di lanciarsi nell’invito a forzare il nostro sguardo e la nostra voce insieme agli altri.

 

Matilde Puleo